Introduzione

Nei paesi industrializzati l’incidenza della spesa sanitaria complessiva sul prodotto interno lordo (PIL) è in continuo aumento a causa di diversi fattori tra cui l’allungamento dell’aspettativa di vita, l’incremento della prevalenza di malattie croniche e degenerative, ma anche l’arrivo sul mercato di nuove tecnologie biomediche tendenzialmente costose.

In questi anni, la situazione economica instabile e l’introduzione di vincoli finanziari hanno aumentato la pressione sul sistema sanitario; il problema dello stanziamento e della distribuzione delle risorse risulta pertanto essere un tema pressante che coinvolge anche etica e bioetica.

Dal punto di vista etico i principali problemi riguardano, infatti, la contrapposizione tra individuo e comunità quindi anche le diverse concezioni di giustizia nella ripartizione delle risorse; se, infatti, da un lato l’etica medica (tradizionalmente deontologica) prevede un approccio individualistico per cui il dovere professionale del medico è quello di proteggere l’interesse del paziente, dall’altro non si può dimenticare la visione utilitaristica per la quale l’approccio deve essere massimizzante nei confronti di più persone e per questo richiede la definizione di criteri per l’assegnazione di priorità1.

Questo spiega perché ci sia un ampio dibattito in merito alle riforme di razionalizzazione e allocazione prioritaria di risorse così come sulla tipologia migliore di sistema sanitario per fornire assistenza all’utenza.

Negli ultimi anni si è sviluppata l’esigenza di promuovere l’utilizzo di tecniche comparative di valutazione economica come le analisi costi-benefici e costi-efficacia, queste analisi economiche sono strumenti cardine dell’Health Technology Assessment (HTA), metodica utilizzata da molti enti regolatori per prendere decisioni tramite una valutazione sistematica delle conseguenze assistenziali, socio-economiche ed etiche provocate nel breve e nel lungo periodo dalle tecnologie sanitarie esistenti e da quelle di nuova introduzione2.

Se da un lato però gli esperti di economia sanitaria si adoperano per individuare criteri, algoritmi ed indicatori per garantire un’equa assistenza sanitaria alla popolazione con le limitate risorse disponibili, dall’altro il mercato della tecnologia sanitaria e specialmente quello farmaceutico tendono a tentare di influenzare i decisori agendo sia sui bisogni che sulle richieste in particolar modo con strategie mirate di marketing. Il mercato stesso si orienta a mantenere elevato il profitto e questo sta portando ad una medicalizzazione della vita di individui e società: si sta verificando una trasformazione di alcuni eventi quotidiani in problematiche da risolvere con trattamenti medici.

Anche per questo, negli ultimi anni si sono sviluppati gruppi e associazioni con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’eccesso di terapia. In particolar modo, Choosing Wisely (CW) è una iniziativa lanciata dall’American Board of Internal Medicine (ABIM) insieme ad organizzazioni no profit e ad alcune società scientifiche americane per individuare test diagnostici e trattamenti diffusi che non hanno dimostrato in maniera scientificamente evidente la loro utilità in modo da aprire un dialogo su questi tra medico e paziente. Choosing Wisely si è successivamente diffuso in altri paesi del mondo tra cui l’Italia dove è stato promosso da Slow Medicine in analogia a CW degli USA; esso ha l’obiettivo di favorire il dialogo dei medici e degli altri professionisti della salute con i pazienti e i cittadini su esami diagnostici, trattamenti e procedure a rischio di inappropriatezza per giungere a scelte informate e condivise. Il progetto è esplicitamente rivolto ai sanitari dato che si basa sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura3.

Per quanto riguarda l’utilizzo dei farmaci in Italia, annualmente dal 2001 l’Osservatorio Nazionale dell’Impiego dei Medicinali (OsMed) dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) produce il Rapporto Nazionale sull’Uso dei Farmaci che fornisce una descrizione analitica dell’assistenza farmaceutica nel nostro Paese. Il Rapporto OsMed non fornisce solo una valutazione della dinamica temporale del consumo dei farmaci, ma consente anche di valutare i pattern prescrittivi ed intercettare i cambiamenti dell’assistenza farmaceutica, suggerendo iniziative informative e formative basate sulle più recenti evidenze scientifiche disponibili4.

Il consumo di antidepressivi in Italia

Nel 2019 (dato quindi non influenzato dalla recente pandemia) in Italia la spesa farmaceutica per gli antidepressivi ha rappresentato nel 2019 il 3,7% del consumo totale di farmaci per un valore pari a 42,5 DDD/1000 abitanti die, in aumento del 2,1% rispetto al 2018 (Tabella 1).

Sottogruppi di Farmaci

Consumi 2018 in DDD/1000 ab die

Consumi 2019 in DDD/1000 ab die

Δ% 19-18

SSRI

29,70

29,90

0,9

SNRI

6,50

6,70

3,3

Altri Antidepressivi

3,00

3,10

2,9

SMS

1,10

1,40

25,7

Triciclici

1,10

1,10

-0,1

Bupropione

0,20

0,30

6,2

NaRI

0,00

0,00

-1,4

NaSSA

0,00

0,00

-35,2

Totale ANTIDEPRESSIVI

41,60

42,50

2,1

Tabella 1 Antidepressivi, consumo in DDD/1000 abitanti die per categoria terapeutica e variazione negli anni 2018-2019. Dati rielaborati da Rapporto OsMed4

Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) con 29,9 DDD/1000 ab die sono la categoria di antidepressivi maggiormente utilizzata (71% del totale) in aumento dello 0,9% in confronto al 2018, mentre i modulatori della serotonina (vortioxetina unico approvato al momento) sono la categoria maggiormente in crescita (+25,7%). Anche nel 2019 la paroxetina (SSRI) si conferma il principio attivo più utilizzato (7,9 DDD/1000 ab die) pur in calo dello 0,5%, tra gli SSRI è la sertralina a far registrare il maggior incremento (+3,7%); altre molecole con importanti aumenti sono il bupropione (+6,2%), inibitore della ricaptazione della noradrenalina-dopamina indicato anche per la disassuefazione al fumo, e la duloxetina (+5,3%) usata anche per il dolore neuropatico.

Per quanto riguarda gli antidepressivi in generale, la prevalenza d’uso nella popolazione è di circa il 5%, ed è maggiore nelle donne; il consumo aumenta con l’età fino a raggiungere nella fascia oltre i 75 anni d’età una prevalenza quasi del 15% negli uomini e del 25% nelle donne. La durata media di terapia è di 223 giorni, ma il 50% degli utilizzatori è trattato per meno di 6 mesi e un paziente su cinque riceve una sola prescrizione all’anno.

La bassa aderenza è un aspetto critico della terapia con antidepressivi, posto che per bassa aderenza al trattamento si intende una copertura terapeutica inferiore al 40% del periodo di osservazione mentre l’alta aderenza è definita come copertura terapeutica maggiore o uguale all’80% del periodo di osservazione e che la persistenza è definita come tempo che intercorre fra l’inizio e l’interruzione di un trattamento farmacologico prescritto.

La percentuale di soggetti con alta e bassa aderenza al trattamento con antidepressivi è stata nel 2019 rispettivamente del 37,6% e 27,2%. In particolare, le percentuali di alta aderenza più elevate sono state osservate nei soggetti di età compresa tra i 45 e i 54 anni (42,2%) e tra 55-64 anni (42,1%). La percentuale di soggetti persistenti al trattamento diminuisce all’aumentare del tempo intercorrente dall’inizio del trattamento passando dal 59,9% a 3 mesi, al 43,1% a 6 mesi e al 32,2% a 12 mesi4.

Un utilizzo così marcato di questo gruppo di farmaci è dovuto in parte al fatto che la depressione è una delle principali cause di disabilità in tutto il mondo ed una delle condizioni che maggiormente impatta sulla salute e sulla qualità della vita dell’individuo, nonché sul sistema salute. La depressione, infatti, aumenta i costi sociosanitari, la sofferenza personale, la disabilità psicosociale, il rischio di comorbidità e mortalità associate. In Italia si contano circa 3 milioni di depressi, tra Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) e altre tipologie di disturbi depressivi. Nonostante siano ad oggi disponibili numerosi trattamenti, i disturbi depressivi sono spesso sottovalutati e poco riconosciuti, in parte a causa dallo stigma che li accompagna e che comporta una scarsa richiesta di aiuto da parte del paziente, in parte a causa di una relativa mancanza di formazione, di tempo e di strumenti che permettano una diagnosi rapida. È necessario pertanto ottimizzare e migliorare l’approccio terapeutico, soprattutto valutando da un lato il trattamento precoce della condizione depressiva maggiore5.

Diagnosi e terapie della depressione: problematiche e controversie

La terapia farmacologica del DDM si basa su farmaci diversificati in termini di pattern di risposta e di possibili effetti avversi. Le possibili strategie terapeutiche utilizzabili sono molte e si considera auspicabile un approccio flessibile nello schema terapeutico, considerando la marcata variazione inter-individuale in termini di efficacia e sicurezza delle varie terapie. Solitamente, l’inizio della terapia antidepressiva presuppone una valutazione dell’efficacia terapeutica dopo circa 2-4 settimane di trattamento. In base alla risposta può essere necessario un cambio di terapia, per scarsa tolleranza mostrata dal paziente o per mancanza di efficacia (in questo caso possono essere necessarie 1-2 settimane aggiuntive). Qualora la terapia risulti efficace, è invece necessario continuarla a dose piena per un periodo di circa 6-9 mesi, facendo seguire una fase di mantenimento tra i 12 e i 36 mesi6.

La problematica fondamentale dei disturbi depressivi è la difficoltà nel riconoscerli, questa difficoltà è testimoniata dal percorso tribolato che ha subito il DSM-5Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali)7 dell’American Psychiatric Association edito negli Stati Uniti nel 2013 dopo ben 14 anni di preparazione, 25 milioni di dollari investiti e dure critiche da coloro che avevano curato le edizioni precedenti. Di particolare rilevanza la critica mossa dal Dottor Allen Frances curatore del DSM-4 che parla di “epidemia diagnostica” causata dal DSM-5 in seguito alla quale può venire considerato mentalmente disturbato circa il 25% della popolazione.

Le principali critiche rivolte al DSM-5 ruotano in sostanza attorno a due elementi specifici: la tendenza alla medicalizzazione, cioè a etichettare come malattie anche condizioni, come la tristezza, la paura che fanno parte delle normali esperienze psichiche di ognuno di noi, e il sospetto che conflitti di interesse, sia economici sia intellettuali, abbiano condizionato le scelte dei membri del comitato produttore del documento8.

Un importante esempio è il caso del Disturbo Disforico Premestruale (DDPM) il quale nel DSM-4 era presente come appendice provvisoria, mentre nel DSM-5 è asceso a vero e proprio disturbo depressivo. Nel DDPM gli sbalzi d’umore precedenti il ciclo mestruale, la tensione al seno, la sensazione di gonfiore e la voglia di dolci non appartengono più alla normalità, ma diventano sintomi di una patologia depressiva9.

Se da un lato è quindi molto complicato diagnosticare correttamente ed intercettare disturbi depressivi, dall’altro il rischio è quello di un “eccesso di zelo” con la medicalizzazione di condizioni non patologiche portando ad una vera e propria “farmacizzazione” (pharmaceuticalization)10.

Ma uno degli aspetti che ha suscitato il maggior numero di critiche è stata la possibilità di definire come episodio depressivo maggiore le reazioni psicologiche depressive conseguenti alla perdita di una persona amata, indipendentemente dalla loro durata, mentre nella precedente edizione del DSM era stato per lo meno stabilito che le reazioni potevano essere patologiche solo se perduravano per oltre 2 mesi dopo il decesso: può così essere etichettata come condizione psichiatrica una normale reazione di lutto.

A tale proposito un editoriale del Lancet dal titolo “La psichiatria non confonda lutto e depressione” commentava tale decisione concludendo: "Il dolore non è una malattia, ma va più utilmente pensato come parte dell'essere umano e di una normale risposta alla morte di una persona cara”.

Stabilire un lasso di tempo per il cordoglio è inadeguato: a volte si sviluppa un disturbo da lutto prolungato o una depressione che potrebbe richiedere un trattamento, ma la maggior parte delle persone che sperimentano la morte di qualcuno che amano non ha bisogno di trattamento da parte di uno psichiatra o di un medico. A coloro che sono in lutto, i medici farebbero meglio a offrire tempo, compassione, ricordo ed empatia, piuttosto che pillole11.

Sulla base di queste considerazioni potrebbe essere data una interpretazione all’elevato consumo di questi farmaci soprattutto negli anziani che spesso la vedovanza costringe ad una solitudine che non sempre sono in grado di accettare serenamente e che cerca rimedi nelle terapie antidepressive; così pure allo stesso modo situazioni di invalidità o isolamento sociale, pensionamento possono essere situazioni a rischio per incorrere in condizioni depressive. Ma è proprio nell’anziano che invece possono verificarsi quegli effetti avversi che vengono descritti negli studi.

Tutti gli antidepressivi sono infatti associati ad un aumentato rischio di cadute, alcuni possono causare iponatriemia e molti sono correlati ad un rischio più elevato di mortalità e di eventi pericolosi per la vita, compreso il tentato suicidio o l’autolesionismo, lo stroke o l’attacco ischemico acuto12.

L'enfasi sulla soluzione farmacologica può distogliere l'attenzione non solo da altri approcci assistenziali come la psicoterapia o la prevenzione delle malattie, ma anche da interventi di sanità pubblica in generale.

È oltretutto interessante notare come negli anni si sia assistito a due fenomeni: da un lato un ampliamento delle indicazioni degli antidepressivi, per cui farmaci che negli anni ’90 erano autorizzati per il DDM oggi lo sono anche per diverse forme d’ansia, disturbi alimentari o disassuefazione dal fumo i quali di certo possono trovare un importante aiuto da situazioni di reti sociali, individuali e collettive per recuperare le autonomie. Emblematico il caso dello Zyban© (Bupropione Cloridrato) il quale in Italia è autorizzato per la disassuefazione dal fumo unitamente ad un supporto motivazionale nei pazienti nicotino-dipendenti. L’altro elemento è l’abbondanza di principi attivi con lo stesso meccanismo d’azione, caratteristiche farmacocinetiche, profilo di tossicità e indicazioni registrate molto simili se non sovrapponibili.

Nel momento in cui ci si interroga sull’opportunità o meno di utilizzare uno psicofarmaco, così come di ogni altro tipo di intervento relativo alla salute, non si può prescindere dall’aspetto fondamentale della dimensione etica (il primum non nocere ippocratico) per cui sin dall’antichità la pratica medica si è orientata verso l’agire per il massimo beneficio del paziente vietando interventi che potessero arrecargli danno. A partire dalla fine degli anni ‘60 si è, però, imposta una nuova etica biomedica che sancisce l’importanza del coinvolgimento del soggetto in cura e il suo diritto di decidere a quale trattamento sottoporsi9.

I quattro principi della bioetica moderna ai quali il professionista della salute deve attenersi includono infatti il principio di autonomia che sancisce il diritto di autodeterminazione del paziente. La dimensione etica è strettamente legata ad una dimensione strategica, nel senso che è importante definire gli obiettivi terapeutici perseguibili per il singolo paziente in un dato momento e contesto di vita e orientarlo di conseguenza verso il tipo di trattamento ritenuto più efficace per raggiungere tali obiettivi1.

Assumere uno psicofarmaco non riguarda infatti esclusivamente la biochimica o la farmacologia ma, in quanto atto terapeutico tramite cui il paziente spera di poter superare il proprio disagio, esso ha importanti implicazioni anche a livello emotivo, psicologico e sociale sia per il paziente che per la realtà che lo circonda.

 

Bibliografia

  1. Viafora C, Furlan E, Tusino S. Questioni di vita, Un'introduzione alla bioetica. Franco Angeli s.r.l. Milano 2019.
  2. Favaretti C. La valutazione della tecnologia sanitaria: strumento di navigazione in ambiente turbolento, in «Clinical Governance: dalla gestione del rischio clinico al miglioramento continuo della qualità», 4, pp. 4-7. 2007
  3. Choosing Wisely Italia - Fare di più non significa fare meglio. Sito: https://choosingwiselyitaly.org/  Accesso in data 16/05/2021
  4. Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali. L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Anno 2019. Roma: Agenzia Italiana del Farmaco; 2020.
  5. World Health Organization. Depression and Other Common Mental Disorders 2017. Sito: http://www.who.int/mental_health/management/depression/prevalence_global_health_estimates/en/.  Accesso in data 19/07/2021
  6. Katzung B G, Trevor A J. Farmacologia generale e clinica. 10 ed. italiana a cura di Paolo Preziosi Anthony TJ, editor: Piccin-Nuova Libraria; 2017. 1479 p.
  7. American Psychiatric Association. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition (DSM-5), APA, Washington, DC (2013). Tr. It. DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
  8. Nonino F, Magrini N. DSM-5 una diagnosi e un farmaco non si negano a nessuno. IsF 2013; 37: 68-72.
  9. Caputo A, Milanese R. Psicopillole Per un uso etico e strategico dei medicinali. Adriano Salani Editore s.u.r.l. Milano 2017.
  10. Meneu R. Life medicalization and the recent appearance of "pharmaceuticalization". Farm Hosp. 2018 Jul 1;42(4):174-179. English. doi: 10.7399/fh.11064. PMID: 29959843.
  11. Zisook S, Pies R, Corruble E. When is grief a disease? The Lancet, Volume 379, Issue 9816, Page 589, 18 February 2012
  12. Coupland C et al. Antidepressant use and risk of adverse outcomes in older people: population based cohort study. BMJ 2011; 343: d45511

 

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